IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
    Ha  pronunciato  la seguente ordinanza n. 10624/1990 r.g. p.m., n.
 5392/1991 r.g. g.i.p.;
    Letti gli atti del procedimento penale sopraindicato nei confronti
 di:
      Cogerino  Italo,  nato  a  Torino  il 6 maggio 1968, residente a
 Torino, via De Sanctis n. 84;
      De Bono Gaetano, nato a Cerignola il 6 gennaio 1965, residente a
 Torino, via Giachino, n. 53, difesi dall'avv.  Dolando  del  foro  di
 Torino;
      Fusco  Carmine,  nato  a  Torino  il 20 agosto 1962, residente a
 Torino, via Saorgio n. 61-bis, difeso dal dott.  proc.  Insabato  del
 foro di Torino, in ordine al reato p. e p. dagli artt. 110, 648 e 640
 del c.p., commessi in Torino, fino al 1º giugno 1990;
                             O S S E R V A
    Il  1º  giugno  1990, due persone effettuavano acquisti di liquori
 presso il supermercato  Mega,  pagando  il  prezzo  relativo  con  un
 assegno  bancario  che uno dei due acquirenti, che esibiva la patente
 di guida per farsi riconoscere, sottoscriveva con il nome  di  Debono
 Gaetano.  La  dipendente  addetta al controllo degli assegni rilevava
 che tale nome compariva in un elenco redatto dai servizi di sicurezza
 della societa' proprietaria del supermercato, in ordine a  nominativi
 di  persone  che  altre volte avevano consegnato in pagamento assegni
 risultati rubati e  si  dirigeva,  allora,  verso  la  cassa  ove  si
 trovavano i due acquirenti. A quel punto, colui che si era presentato
 come  Debono  si  dava  alla  fuga,  portando con se' le bottiglie di
 liquore, mentre l'altro giovane  che  era  con  lui,  successivamente
 identificato  per  Cogerino  Italo, veniva prontamente fermato da una
 guardia giurata, Martone Vincenzo, immediatamente  intervenuta.  Tale
 addetto  alla sorveglianza, che aveva avuto modo di vedere bene anche
 il sedicente Debono prima che si allontanasse, aveva riconosciuto  in
 lui la persona che circa due mesi prima, il 7 marzo, aveva cercato di
 impadronirsi   di   altra   merce   del  supermercato  ed  era  stato
 individuato, fermato e identificato attraverso  l'esibizione  di  una
 patente  di  guida  della  quale  il  Martone  aveva  conservato  una
 fotocopia trasmessa ai servizi di sicurezza interni  insieme  ad  una
 breve  relazione  sull'accaduto.  Si  poteva  cosi'  rilevare  che la
 medesima persona, nelle due riferite  circostanze,  aveva  presentato
 due  diverse  patenti  di  guida  intestate  a Debono Gaetano, quella
 presentata nella seconda occasione e a Fusco Carmine, quella  esibita
 al  Martone nella prima circostanza. Dal raffronto delle due relative
 fotocopie, inoltre, appariva verosimile che la foto apposta  su  tali
 patenti fosse la stessa, riproducente la medesima persona.
    Il procuratore della Repubblica disponeva i necessari accertamenti
 per  verificare  la  provenienza dell'assegno dato in pagamento il 1º
 giugno e per accertare se la patente intestata al Fusco, esibita il 7
 marzo, risultasse denunciata  rubata  o  smarrita.  L'esito  di  tali
 accertamenti  non  perveniva  nei  termini  di  durata delle indagini
 preliminari ed  il  procuratore  generale  avocava  le  indagini  per
 mancato  esercizio  dell'azione  penale,  a  norma  dell'art. 412 del
 c.p.p. in data 8 febbraio 1991.
    Acquisiti gli accertamenti che  il  procuratore  della  Repubblica
 aveva disposto, il procuratore generale emetteva decreto di citazione
 a  giudizio  nei confronti del Debono e del Cogerino per ricettazione
 dell'assegno dai due dato in pagamento, che era risultato  rubato,  e
 per  l'emissione di tale assegno senza l'autorizzazione del trattario
 e chiedeva, invece, a questo ufficio l'archiviazione del procedimento
 in ordine alla posizione di Fusco Carmine, la cui  patente  di  guida
 non  risultava  ne'  sottratta,  ne'  smarrita, per il reato previsto
 dall'art. 640 del c.p.
    A questo giudice i fatti oggetto del procedimento  non  apparivano
 chiari   e   ben  accertati.  Intanto,  nessuno  aveva  compiutamente
 identificato il sedicente Debono, il quale  si  era  dato  alla  fuga
 nella seconda circostanza, prima dell'arrivo dei carabinieri e, nella
 prima occasione, era stato, invece, fermato dal sorvegliante al quale
 aveva  esibito  la  patente intestata a Fusco Carmine, che al Martone
 doveva presumibilmente essere apparsa valida  e  autentica  ed  anche
 corrispondente, nella foto, alla persona che la presentava. Colui che
 era  stato rinviato a giudizio come Debono, in altri termini, avrebbe
 potuto  anche  essere  proprio  Fusco  Carmine  (anche  il  documento
 intestato  a  Debono  Gaetano non risultava essere stato sottoposto a
 controlli di alcun genere). A tal riguardo, si rilevava che anche  la
 firma  apposta sull'assegno a nome Debono non appariva corrispondente
 alla firma apposta sulla patente di guida intestata a Debono Gaetano,
 almeno a quel che era dato desumere dalla sola fotocopia in atti. Nel
 decreto di citazione, inoltre, non veniva fatta alcuna  contestazione
 in  ordine al furto delle bottiglie di liquore commesso dal Debono (o
 Fusco) che  le  aveva  portate  con  se'  prima  dell'intervento  del
 sorvegliante.  Neppure  risultavano  contestati i fatti commessi il 7
 marzo, anche perche' al riguardo nessuna indagine era  stata  svolta.
 Ma  soprattutto,  per  quanto  piu'  direttamente  interessava questo
 ufficio chiamato a decidere sulla richiesta di archiviazione,  veniva
 ipotizzato  a  carico  del  Fusco un delitto di truffa e non appariva
 chiaro su quali elementi fondasse tale configurazione di  reato,  ne'
 si riusciva a comprendere come il Fusco potesse essere stato ritenuto
 estraneo   ad   ogni   altro  eventuale  reato,  proprio  sulla  base
 dell'accertamento secondo il  quale  la  sua  patente  di  guida  non
 risultava   essere  stata  denunciata  rubata  o  smarrita.  Appariva
 evidente, a tal riguardo, la necessita' di altre indagini, al fine di
 accertare se il sedicente Fusco fosse  riuscito  (come  sembrava)  ad
 impadronirsi  di  merce dei magazzini, attraverso quali modalita', se
 fossero stati usati altri assegni, se  essi  risultassero  rubati  e,
 soprattutto, se l'autore dei fatti fosse il vero Fusco o il Debono e,
 in  qust'ultimo  caso,  se  egli avesse usato il documento del Fusco,
 cosi'  commettendo  anche  il  reato  di  sostituzione  di   persona,
 all'insaputa del Fusco medesimo ovvero con la sua collaborazione.
    La  richiesta di archiviazione, insomma, non veniva accolta e, con
 l'ordinanza in atti dell'8 aprile 1991, veniva fissato il termine  di
 due  mesi per il compimento delle indagini indicate nel provvedimento
 citato. Il procuratore generale restituiva, pero', gli atti a  questo
 giudice, sostenendo l'impossibilita' del compimento di altre indagini
 oltre  il  termine  di sei mesi, previsto dall'ultimo comma dell'art.
 407 del c.p.p. Con l'ordinanza del 15 aprile  1991,  questo  giudice,
 dopo  aver  affrontato il problema procedurale sollevato, ribadiva la
 necessita'  delle  indagini  da  svolgere  nel  termine  fissato.  Il
 procuratore  generale,  in data 18 aprile 1991, restituiva ancora gli
 atti del procedimento a  questo  ufficio,  rilevando,  questa  volta,
 anche   l'inopportunita'   e,   per  certi  aspetti,  l'impossibilita
 materiale di svolgere le indagini indicate e  confermava,  cosi',  la
 sua iniziale richiesta di archiviazione.
    La  situazione  che  si  era  venuta  a creare non consentiva piu'
 alcuno  sbocco  al  procedimento,  per  cui   questo   giudice,   con
 l'ordinanza  in  atti  del  29  aprile  1991,  proponeva conflitto di
 competenza alla Corte di cassazione, pur prefigurandosi  la  relativa
 inammissibilita'  non  riguardando  esso  due organi giudicanti, allo
 scopo, soprattutto, di ottenere dalla suprema Corte l'interpretazione
 delle disposizioni del codice  di  procedura  da  applicare  al  caso
 concreto,  con l'indicazione della via da seguire per la prosecuzione
 del procedimento stesso.
    Il supremo collegio, con sentenza  n.  3217  del  12  luglio  1991
 (sezione prima, pres. Molinari), mentre dichiarava l'inammissibilita'
 del  proposto conflitto, esaminava pure la situazione processuale che
 ne aveva  costituito  il  fondamento  e,  interpretando  le  relative
 disposizioni,  indicava  a questo giudice le possibili soluzioni con-
 crete per la necessaria conclusione del procedimento.
    Ebbene, l'interpretazione delle norme prese in esame dalla suprema
 Corte e' quella alla quale occorre attenersi, sia per l'autorevolezza
 del collegio da cui essa proviene, organo cui e' assegnato,  appunto,
 il  compito  di  assicurare uniformita' interpretativa alle decisioni
 giurisprudenziali, sia perche' - in  ogni  caso  -  non  si  potrebbe
 imporre,  da  parte di questo giudice, una diversa interpretazione ad
 un altro ufficio giudiziario. Proprio  per  questo,  pero',  pare  di
 poter   cogliere   nelle   norme   in   discussione   un  profilo  di
 illegittimita' costituzionale, per cui si ritiene di dover  sollevare
 la  questione alla Corte costituzionale, giacche' essa e' sicuramente
 rilevante, dal momento che questo  giudice  e'  chiamato  proprio  ad
 applicare  tali  norme  e,  per quanto si osservera', la questione da
 proporre al vaglio della Corte non pare manifestamente infondata.
    Le disposizioni di cui si tratta sono quelle  contenute  nell'art.
 554  del  codice  di  procedura  penale  e nell'art. 409 dello stesso
 codice, dal momento che la disciplina in quest'ultima norma  prevista
 trova  applicazione anche al procedimento di competenza del pretore a
 seguito della sentenza n. 445/1990 della  Corte  costituzionale.  Con
 tale  decisione, l'istituto dell'archiviazione ha subito una notevole
 modifica rispetto alle precedenti  struttura  e  disciplina  ad  esso
 assegnate  dal  legislatore.  La  Corte  costituzionale,  invero,  ha
 interamente abrogato l'art. 157 delle disposizioni di  attuazione  al
 codice  di  procedura  penale,  perche' dichiarato illegittimo, ed ha
 esteso   anche   ai   procedimenti   di   competenza   del    pretore
 l'applicabilita'   della  disposizione  contenuta  nel  quarto  comma
 dell'art. 409 del codice.  Tale ultimo intervento e'  stato  ritenuto
 dalla   Corte   necessario,  una  volta  dichiarata  l'illegittimita'
 costituzionale del citato art. 157 delle  norme  di  attuazione,  per
 ragioni  di  "ragionevolezza"  e di "coerenza", giacche', altrimenti,
 nel  procedimento  pretorile  non  vi  sarebbe  stata   piu'   alcuna
 disciplina  normativa  di  casi  in  cui  il  giudice per le indagini
 preliminari, di fronte ad una richiesta di archiviazione del pubblico
 ministero, avesse ritenuto necessarie altre indagini.
    Cio' nonostante, nel caso  di  specie,  secondo  l'interpretazione
 della  Corte di cassazione, ugualmente ci si trova in presenza di una
 situazione priva di disciplina normativa.
    Il  procuratore  generale,  invero,  affermando  in  sostanza  che
 l'organo  avocante  rimane  distinto  dal  pubblico  ministero per il
 quale,  invece,  e'  stata  dettata  la  normativa  in   materia   di
 archiviazione,  ha  rifiutato  di compiere le altre indagini ritenute
 necessarie  ed  indicate  da  questo  giudice  e per ben due volte ha
 restituito gli atti  a  questo  ufficio,  pretendendo  l'accoglimento
 della richiesta di archiviazione.
    La  Corte  di  cassazione,  nella  menzionata  sentenza,  anche se
 apparentemente e peraltro solo in parte sembra respingere la premessa
 della tesi del procuratore generale, non ne elimina tutti gli effetti
 pratici,  sia  pure  attraverso  un  diverso  tipo  di   ragionamento
 giuridico.
    Nella  motivazione  del  citato provvedimento, infatti, il supremo
 collegio accomuna le posizioni di pubblico ministero e di procuratore
 generale dinanzi alla normativa contenuta negli artt. 554 e  409  del
 c.p.p.  e,  in  tal  modo,  mentre  sembra  contraddire  la  tesi del
 procuratore generale, in effetti  finisce  proprio  col  distinguere,
 ancorche'  allo  scopo  di  accomunarne  le  posizioni,  il  pubblico
 ministero dal procuratore generale.  Tale  distinzione,  francamente,
 non  pare  possa  trovare  alcuna  valida  giustificazione normativa,
 soprattutto alla luce di quanto  dispone  l'art.  51  del  codice  di
 procedura  penale,  con il quale testualmente l'ufficio della procura
 generale presso la corte d'appello viene definito  e  considerato  un
 ufficio del pubblico ministero, al pari di quelli della procura della
 Repubblica  presso  il  tribunale  o  presso  la  pretura,  da cui si
 distingue soltanto per le diverse funzioni a  tali  uffici  assegnati
 dalla legge. Ne' la citata distinzione fatta dalla suprema Corte puo'
 essere   considerata  casuale,  giacche'  la  rimanente  parte  della
 decisione conferma la diversa  posizione  assegnata  dal  legislatore
 all'autorita' avocante. Ed infatti, argomenta in sentenza la Corte di
 cassazione  "  ..  ad  assicurare  la completezza delle indagini ed a
 garanzia contro l'inerzia del p.m., e' stato previsto  il  potere  di
 avocazione ad opera del p.g.  ..
    Non   poteva   il  legislatore  prevedere  l'ipotesi  dell'inerzia
 addebitabile anche in seconda battuta all'autorita' avocante  perche'
 la  fattispecie,  assolutamente  estranea al sistema, appariva per la
 sua anomalia praticamente non proponibile .." e, sulla base  di  tali
 argomentazioni,  la  Corte  conclude: "Inammissibile il conflitto, al
 g.i.p. non resta che avvalersi delle facolta' previste dalla legge: e
 cioe' aderire alla richiesta di archiviazione  ovvero  ex  art.  554,
 secondo  comma, disporre che gli atti siano restituiti al p.g. per la
 formulazione dell'imputazione".
    La riportata decisione della suprema Corte suscita in  chi  scrive
 notevoli  perplessita'.  Da una parte, come si e' gia' osservato, non
 si ritiene affatto che il  legisltore  abbia  inteso  distinguere  il
 pubblico  ministero  dal  procuratore  generale,  al punto che, se si
 tratta  di  pubblico  ministero  di  prima  battuta,  debba   trovare
 applicazione  la  disciplina  normativa  che si riferisce al pubblico
 ministero, mentre, nel caso sia  intervenuto  l'organo  avocante,  la
 predetta  disciplina  debba  ritenersi inapplicabile, con conseguenti
 vuoti normativi.
    Non  si  ritiene  neppure,  d'altra  parte,  che  il  legislatore,
 attraverso  l'istituto  dell'avocazione,  previsto  dal  primo  comma
 dell'art. 412 del c.p.p. abbia  inteso  rimediare  solo  ai  casi  di
 inerzia   del  pubblico  ministero,  per  cui  non  si  condivide  il
 conseguente assunto e, cioe', che  non  puo'  essere  stata  prevista
 anche  l'inerzia  di  chi  aveva  il  dovere di rimediare all'inerzia
 altrui.  Il  mancato  esercizio  dell'azione penale ovvero la mancata
 richiesta di  archiviazione  da  parte  del  pubblico  ministero  nel
 termine di sei mesi non sempre e' il frutto di un'inerzia dell'organo
 inquirente,  anche  perche', se cosi' non fosse, il termine di trenta
 giorni per le indagini assegnato all'autorita' avocante con lo stesso
 art. 412 del codice risulterebbe, gia' nella stessa  previsione,  del
 tutto   inidoneo  a  rimediare  alla  completa  carenza  di  indagini
 addebitabile al pubblico ministero inerte.
    Maggiori perplessita', poi, suscita proprio la conclusione che  il
 supremo  collegio trae dalle esposte premesse. Se, in buona sostanza,
 si fa distinzione tra pubblico  ministero  e  pubblico  ministero,  a
 seconda  dell'ufficio  che  ne  svolga  le funzioni e si afferma che,
 nella previsione  del  legislatore,  la  disposizione  contenuta  nel
 quarto comma dell'art. 409 del c.p.p. non puo' essere applicata anche
 al  procuratore  generale,  giacche'  tale  norma  e'  stata  dettata
 soltanto per il pubblico ministero in prima battuta,  come  si  puo',
 allora,  tra  le possibili soluzioni al caso concreto, indicare anche
 quella della cosiddetta  imputazione  coatta,  prevista  dal  secondo
 comma  dell'art.  554  del  codice  di  procedura penale? Proprio dal
 tenore  testuale  delle  disposizioni  contenute  nel  secondo  comma
 dell'art.  554  del codice e nell'art. 158 delle norme di attuazione,
 introdotto a completamento della relativa disciplina, si  evince  con
 assoluta  chiarezza  che  tali  disposizioni  sono state previste dal
 legislatore solo per il pubblico ministero in prima battuta e, cioe',
 perche'  esse  potessero  essere  applicate  nella  fase   precedente
 all'eventuale  avocazione  del procuratore generale. Quando, infatti,
 si stabilisce che l'ordinanza con la quale il giudice dispone che  il
 pubblico  ministero  formuli  l'imputazione deve essere comunicata al
 procuratore  generale  per  l'eventuale  esercizio  del   potere   di
 avocazione e, conseguentemente, si assegna al procuratore generale il
 termine  di cinque giorni per avvalersi di tale facolta', non pare vi
 possa essere alcun dubbio sul fatto che il legislatore abbia  escluso
 che  l'organo  destinatario  di  tale  ordinanza  del giudice potesse
 essere lo stesso procuratore generale che, per giunta, si fosse  gia'
 avvalso del suo potere di avocazione.
    Se,  pertanto,  l'interpretazione  della  disciplina  normativa in
 parola offerta dalla suprema Corte di cassazione con la  sentenza  in
 atti  e'  quella  alla  quale occorre attenersi - e, per le suesposte
 ragioni, questo giudice in alcun modo  potrebbe  disattendere  quanto
 stabilito dalla Corte di cassazione nel presente procedimento - forse
 si  potrebbe  persino  pervenire  alla conclusione che al procuratore
 generale  non   puo'   essere   imposta   nemmeno   la   formulazione
 dell'imputazione  da  parte  del giudice per le indagini preliminari;
 certamente non possono essere  richieste  dal  giudice  le  ulteriori
 indagini ritenute necessarie.
    La  conseguenza che si puo' trarre dalle esposte considerazioni e'
 di assoluta evidenza. Il procuratore generale, dopo l'avocazione  del
 procedimento,  diviene  arbitro assoluto ed insindacabile delle sorti
 del procedimento stesso e, dinanzi ad una sua eventuale richiesta  di
 archiviazione,  il  giudice  per le indagini preliminari e' tenuto ad
 emettere decreto di archiviazione.
    Ne', a  tal  riguardo,  varrebbe  rilevare  che  il  rimedio  alla
 descritta situazione e' quello indicato nella sentenza della Corte di
 cassazione    e,   cioe',   quello   di   imporre   la   formulazione
 dell'imputazione,  giacche',  da  una  parte,  come  gia'  osservato,
 proprio  sulla base della motivazione contenuta nella stessa sentenza
 della Corte non pare  affatto  certo  che  possa  essere  imposta  al
 procuratore  generale  la formulazione dell'imputazione e, dall'altra
 parte, perche' tale strumento processuale ugualmente,  nella  maggior
 parte  dei casi, non costituirebbe affatto la soluzione del problema.
 Se, infatti, al procuratore generale non possono essere  indicate  le
 ulteriori indagini da svolgere e, soprattutto, se all'organo avocante
 non  puo'  essere  fissato  un  nuovo termine per il compimento delle
 indagini ritenute necessarie, la  conseguenza  evidente  e'  che  nei
 trenta  giorni  previsti  dall'art.  412  del  c.p.p. l'ufficio della
 procura  generale,  soprattutto,  poi,  se  si  tiene   conto   della
 complessita'   di   alcune   indagini,  del  rilevante  numero  delle
 avocazioni e del fatto che al procuratore generale non  e'  assegnata
 alcuna  facolta' di richiedere la proroga dei termini di durata delle
 indagini preliminari, se anche volesse, non sarebbe assolutamente  in
 grado   di   svolgere  indagini  idonee  e  necessarie  all'esercizio
 dell'azione penale,  con  la  conseguenza  che  il  termine  previsto
 dall'art.   412   del   codice   contrasterebbe   con   il  principio
 dell'obbligatorieta'  dell'esercizio  dell'azione   penale   previsto
 dall'art.  112  della  Costituzione  e  tutta la descritta disciplina
 contrasterebbe con i principi costituzionali sanciti dagli artt.  101
 e  102  della  Costituzione,  giacche'  al giudice sarebbe, di fatto,
 sottratta la funzione giurisdizionale  ed  egli  diventerebbe  organo
 esecutivo di una richiesta vincolante del pubblico ministero.
    Se,  invece,  si  vuole restringere il campo alla questione che in
 questa sede appare rilevante, ugualmente si  perviene  alla  medesima
 conclusione. Nel caso di specie, infatti, come gia' messo in evidenza
 quando si e' descritto il fatto oggetto del procedimento, allo stato,
 non  sussistono obiettivi e concreti elementi per esercitare l'azione
 penale nei confronti del Fusco, dal momento che non e'  assolutamente
 chiaro se egli abbia commesso dei reati e quali e nemmeno se il Fusco
 fosse proprio il Fusco o altra persona.
    Poiche',  pero',  le altre indagini ritenute necessarie e indicate
 nei relativi provvedimenti in atti  non  possono  essere  imposte  da
 questo  giudice  al  procuratore  generale,  secondo quanto stabilito
 dalla Corte di  cassazione,  l'unica  alternativa  percorribile,  non
 essendovi  gli  elementi  per  l'imputazione  coatta,  sarebbe quella
 dell'accoglimento della richiesta di archiviazione.  Cio'  ugualmente
 comporta  una  straordinaria limitazione ai poteri giurisdizionali di
 questo ufficio, corrispondemente ad un'insindacabile discrezionalita'
 del pubblico ministero.  Il  procuratore  generale,  infatti,  a  suo
 insindacabile  giudizio,  avrebbe  potuto  autonomamente  svolgere le
 indagini  necessarie  ovvero  egli,  una  volta  emesso  decreto   di
 archiviazione  da parte di questo giudice, potrebbe ancora richiedere
 la riapertura delle indagini, mentre  nessun  tipo  di  strumento  e'
 assegnato  a  questo  ufficio  per  poter  far luce su alcuni aspetti
 essenziali del procedimento, necessari a stabilire  se  sussistano  o
 meno i presupposti per l'esercizio dell'azione penale.
    Altre  considerazioni,  poi, sono necessarie in ordine all'aspetto
 gia' preso in considerazione dalla Corte costituzionale con la citata
 sentenza n. 445/1990 e,  cioe',  a  quello  relativo  alle  eventuali
 differenze di disciplina tra procedimento pretorile e procedimento di
 competenza  di  tribunale,  giacche' anche a tal riguardo la sentenza
 della  Corte  di  cassazione  da'  adito ad altri, notevoli dubbi. La
 Corte costituzionale, infatti, nella piu' volte menzionata decisione,
 si e' gia' espressa nel senso dell'illegittimita',  sul  piano  della
 ragionevolezza   e   della   coerenza,   di   ogni   sostanziale   ed
 ingiustificata difformita' di normativa a seconda che  si  tratti  di
 procedimento  di  competenza del pretore ovvero del tribunale. Con la
 disposizione contenuta nel secondo comma dell'art. 412 del codice  di
 procedura   penale,   peraltro,  e'  espressamente  previsto  che  il
 procuratore generale possa esercitare il potere di avocazione  quando
 il  giudice,  non  avendo  accolto  la richiesta di archiviazione del
 pubblico ministero, abbia fissato la prevista udienza  in  camera  di
 consiglio.  Per  testuale  ed  espressa  previsione normativa, non si
 ritiene vi possano essere  dubbi  che  i  poteri  del  giudice  nella
 consegurnte udienza relativi all'indicazione di nuove indagini ovvero
 all'imposizione   della   formulazione   dell'imputazione   rimangano
 invariati indipendentemente dal fatto che il procuratore generale  si
 sia   avvalso   o   meno   della  predetta  facolta'  di  avocare  il
 procedimento. Anche perche',  se  cosi'  non  fosse,  si  arriverebbe
 davvero  all'assurda  conseguenza  che l'esercizio dei poteri e delle
 facolta' assegnati dalla legge al giudice, dipenderebbe, di fatto, da
 una scelta discrezionale del procuratore generale.
    Fermo restando, allora, che nel  procedimento  di  competenza  del
 tribunale  il  giudice per le indagini preliminari puo' esercitare le
 facolta' previste dal quarto e quinto comma dell'art. 409 del  codice
 anche  nei confronti del procuratore generale, le possibilita' inter-
 pretative sembrano soltanto due. O l'interpretazione data dalla Corte
 di cassazione si riferisce solo  ai  casi  in  cui  la  richiesta  di
 archiviazione  provenga  gia'  dal  procuratore  generale  che  abbia
 esercitato i suoi poteri di avocazione, quindi,  a  norma  del  primo
 comma dell'art. 412 del codice e, cioe', quando il pubblico ministero
 di   prima  battuta  non  abbia  ancora  fatto  alcuna  richiesta  di
 archiviazione al giudice ovvero ci si trova nuovamente in presenza di
 un  caso  di  ingiustificata  difformita'  di  disciplina  a  seconda
 dell'ufficio  giudiziario  competente  per  materia. Se fosse vera la
 prima ipotesi, pero', occorrerebbe anche stabilire cosa  avviene  nei
 procedimenti di competenza del tribunale quando, dopo aver avocato il
 procedimento  a  norma  del primo comma dell'art. 412, il procuratore
 generale presenti al giudice richiesta di archiviazione e questi  non
 ritenga di poterla accogliere. A chi scrive, infatti, appare evidente
 che,  non essendo prevista alcuna diversa disciplina, anche in questi
 casi debbano trovare applicazione  le  disposizioni  contenute  negli
 artt.  409 e 410 del c.p.p., anche perche', in caso contrario, pure i
 poteri di opposizione alla richiesta di archiviazione previsti per la
 persona offesa potrebbero essere esercitati o meno a seconda  che  il
 procedimento  penale sia stato avocato o no dal procuratore generale.
 E come potrebbe, inoltre, il giudice imporre al procuratore  generale
 anche   la  sola  formulazione  dell'imputazione  fuori  dall'udienza
 prevista dall'art. 409 del codice, se tali disposizioni non potessero
 piu'  applicarsi  perche',  avocato  il  procedimento,  il   pubblico
 ministero  richiedente sarebbe diventato il procuratore generale, per
 il quale il legislatore non poteva considerare e disciplinare i  casi
 di   inerzia?   Se  fosse  vera,  insomma,  la  prospettata  ipotesi,
 occorrerebbe  improvvisare  ex  novo  tutta  una  disciplina  che  il
 legislatore,  in  effetti, non ha previsto. Per questo si ritiene che
 questa   ipotesi   interpretativa   non  possa  essere  concretamente
 prospettata. Non rimane,  allora,  che  la  seconda  possibilita'  e,
 cioe', che nei procedimenti di competenza del tribunale, a differenza
 di  quelli  pretorili,  il  giudice  che  ritenga  di  indicare altre
 indagini  al  procuratore  generale  che  abbia  fatto  richiesta  di
 archiviazione  puo'  disporlo  e  cio'  fa  sorgere  dubbi  circa  la
 legittimita'  costituzionale  di  una   simile   interpretazione   in
 relazione  all'art. 5 della Costituzione per ragioni analoghe proprio
 a quelle gia' prese  in  considerazione  dalla  Corte  costituzionale
 nella sua sentenza n. 445/1990.
    E  tutto  cio', senza neppure volersi soffermare sull'ipotesi che,
 in una siffatta disciplina,  gia'  il  pubblico  ministero  di  prima
 battutta   potrebbe   con  consapevolezza  omettere  di  svolgere  le
 indagini, sicuro che esse, soprattutto se lunghe  e  complicate,  non
 potrebbero  essere  piu'  svolte dopo l'avocazione del procedimento e
 senza voler considerare che il  nostro  sistema  processuale  conosce
 anche  altri  casi di avocazione, quali quelli previsti dall'art. 372
 del codice, da ultimo modificato ed ampliato dal  d.-l.  9  settembre
 1991,  n.  292,  in  relazione  ai  quali gli effetti della descritta
 disciplina sarebbero ancora piu' pericolosamente rilevanti.
    Per le esposte ragioni, si ritiene  che  gli  artt.  554,  secondo
 comma,  e  409,  quarto  comma,  del  codice di procedura penale, non
 consentendo al giudice per le indagini  preliminari  di  indicare  le
 ulteriori  indagini  ritenute  necessarie al procuratore generale che
 abbia  fatto  richiesta  di  archiviazione  possano  essere  ritenuti
 illegittimi   per  contrasto  con  gli  artt.  3,  102  e  112  della
 Costituzione, per cui gli atti devono  essere  trasmessi  alla  Corte
 costituzionale per il giudizio di legittimita'.